Soste di pensiero in un tempo che corre ... male.
Ad agosto, come sempre, sento il bisogno di scrivere cose diverse dal solito. In questo spazio dove abitualmente racconto strade percorse e mete raggiunte, ad agosto lascio da parte le mappe e mi volto verso ciò che non si fotografa : la vita nascosta dentro il quotidiano. Una vita che non si mostra, ma si rivela solo a chi sa rallentare, ascoltare, restare. Questo è il mio viaggio interiore, un omaggio al tempo invisibile che ci attraversa e ci trasforma, senza fretta, senza rumore. In un tempo in cui tutto corre veloce e spesso pure male visto questo periodo storico, e si perde il contatto con ciò che conta davvero, ho sentito il bisogno di fermarmi e riflettere. Questo racconto esistenziale nasce da quelle pause necessarie, da pensieri semplici ma profondi, che parlano di autenticità, semplicità e presenza. Non è una grande rivoluzione, ma una piccola filosofia personale, una ricerca minima per ritrovare un equilibrio, anche, e soprattutto, sapendo che la vita, per come la sento io, non ha un vero senso.
Il punto di rottura
Ho iniziato a scrivere queste riflessioni in ospedale, a fine marzo, mentre mi somministravano per via endovenosa l’ennesima dose di antibiotico. Guardavo fuori dalla finestra e mi chiedevo se e quando sarei potuto tornare a una vita normale. Dopo un esame endoscopico di routine, tra l’altro andato bene, un batterio si era fatto strada nel mio corpo senza invito. Da lì, un ricovero forzato, la febbre, le flebo, e soprattutto il tempo : tanto tempo per pensare. Quando il corpo rallenta, la mente accelera. Le domande arrivano in silenzio, ma non smettono più di bussare. Mi sono ritrovato a riflettere sulla mia vita, sugli errori commessi, sulle emozioni forti vissute, sulle donne che hanno incrociato il mio cammino, sui viaggi intrapresi per cercare risposte che forse non volevo davvero trovare. E intanto ero lì, fermo, immobile, con il desiderio di guarire, ma soprattutto di tornare a vivere con autenticità. Più che ripartire da un senso, volevo proprio guarire.
Le false promesse della quotidianità
Quando si è costretti a fermarsi, ci si promette grandi cambiamenti. Si pensa di eliminare il superfluo, in senso materiale e immateriale, e di semplificare la vita. Si desidera mettere ordine nei pensieri, aggrapparsi alle cose buone, costruire qualcosa di nuovo su fondamenta più sincere. Ma poi si torna alla vita di prima, e quelle promesse si dissolvono nel rumore quotidiano. Io stesso ho fatto spesso questi propositi, ma ho finito per assecondare il quieto vivere. Ho sempre pensato che vedere felici le persone accanto a me bastasse per essere felice. E invece no. Soffro di una dipendenza emotiva che mi frena, che mi spinge a voler accontentare tutti, a non dire mai “no”, a temere il conflitto anche quando so di essere dalla parte della ragione. Vivere così, alla lunga, logora. Mi sento distante da chi sono quando agisco così.
La disumanizzazione digitale
C'è però una causa ancora più profonda di questo malessere : il mondo in cui viviamo. Un mondo che corre veloce verso la digitalizzazione totale, verso una connessione costante e sempre più invasiva. Un mondo che ha trasformato ogni cosa, anche la più semplice, in un’esperienza mediata da uno schermo.
Io non ci sto.
Non accetto che leggere un menù al ristorante implichi dover inquadrare un QR code. Non sopporto di dover usare un’app per pagare un parcheggio, con l’obbligo di inserire una carta di credito. Perché ogni gesto quotidiano dev’essere filtrato da un dispositivo? Perché tutto ciò che prima era umano e diretto è diventato digitale, automatizzato, impersonale? Vorrei che gli smartphone sparissero da luoghi di socialità e cultura come ristoranti, cinema, teatri. Vorrei che tornassimo a vivere quei momenti con presenza reale, senza notifiche, distrazioni o fotocamere costantemente attive. Durante le vacanze a Koufonissi, piccola isola delle Cicladi in Grecia, insieme ad Andrea abbiamo provato a disintossicarci : smartphone accesi solo al mattino e alla sera. Ho ripensato a quel piacere semplice del passato, come quando ascoltavo la musica da un vecchio iPod. Senza Internet, senza interruzioni. Senza quei fastidiosi “messaggi vocali”, una forma di comunicazione che non sopporto, perché impedisce un dialogo spontaneo, perché impone un monologo a cui non si può rispondere subito. Mi irrita anche l’aspettativa di una risposta ai messaggi scritti. Se qualcuno mi scrive per chiedermi qualcosa e io rispondo subito, poi mi infastidisco quando devo aspettare anche ore per una controreplica. Non sono io quello che ha bisogno di risposta immediata. Spesso si dà per scontato che tutti siano sempre disponibili, reperibili, pronti. Ma la reciprocità è rara. Non è una questione di ansia : è una questione di rispetto. E ogni ricorrenza non fa che accentuare questa ossessione : Natale, Pasqua, Capodanno, le vigilie … giorni che dovrebbero essere caldi, condivisi, eppure si riducono a un frastuono di messaggi, foto, video e notifiche. Basterebbe spegnere il cellulare; eppure, quando lo si riaccende, li troveremmo lì, pronti a raffica. La presenza reale sparisce. La festa diventa rumore. Ogni attimo sembra dover essere visto, sempre, da tutti, come se il valore del momento non esistesse senza l’approvazione digitale. Rimpiango i tempi in cui si comunicava solo quando serviva, con il telefono fisso, con chi davvero contava. Oggi invece ti chiedono “Dove sei ?”, “Cosa stai facendo ?” come se fosse normale. Ma non è normale. È un’invasione, mascherata da interesse. Ultima considerazione su questo tipo di fenomeno sociale che trovo allucinante : trovo assurdo e triste vedere un bambino già con un cellulare in mano solo per intrattenerlo, per distrarlo, per tenerlo buono, o a un ragazzino solo per poterlo sorvegliare o illudersi di controllarlo. Così non li si protegge. Non è educazione, è la rinuncia a insegnare davvero, è un modo comodo per abituarli fin da subito alla dipendenza e così si spegne la curiosità ancor prima di nascere. E quando vedo una coppia o due coppie sedute allo stesso tavolo, ciascuno immerso nel proprio cellulare, lo trovo inquietante : condividono uno spazio senza guardarsi, senza parlare, senza vivere il momento. È il simbolo più chiaro di quanto la tecnologia ci stia svuotando.
Il teatrino social e l’analfabetismo emotivo
Non uso i social, ma a volte leggo quello che vi circola. E ne rimango sempre più disturbato. È un mondo fatto di apparenza, giudizi sommari, frasi urlate, violenza verbale. Un luogo dove il confronto è diventato scontro, dove il sarcasmo ha preso il posto della gentilezza, dove la rabbia viene scambiata per autenticità. È diventato un posto dove ognuno vuole mettere in mostra sé stesso, un continuo scambio di commenti anche pesanti, frasi fatte e indignazione facile dietro uno schermo. Un luogo dove non si comunica : si recita. E male aggiungerei. Penso che eliminare completamente la possibilità di inserire commenti su tutti i social potrebbe cancellare radicalmente la diffusione di polemiche, insulti e disinformazione. Senza la sezione commenti, l’attenzione resterebbe solo sui contenuti, creando uno spazio più rispettoso e meno nocivo. Ma ciò che trovo più inquietante è questa smania ridicola di mostrarsi, di farsi un selfie ovunque, di dire “guardatemi, sono qui”, come se il valore dell’esperienza dipendesse dal fatto che gli altri lo sappiano. Sono diventati spettatori di loro stessi, impegnati a costruire una versione digitale della propria vita più interessante di quella reale. È una messinscena continua. Il viaggio, la cena, il concerto : tutto esiste solo se condiviso, solo se validato da i cuoricini e dai “mi piace”. I social non connettono: alienano. Non avvicinano: dividono. Sono sistemi che alimentano la dipendenza facendoli passare per progresso. Se non li usi ? Allora non esisti, non sei moderno, non stai al passo. Tutto ciò è esattamente il contrario, non è evoluzione, è regressione. E non è solo colpa delle piattaforme. È un problema più grande : le persone che li usano si stanno abituando alla superficialità. L’empatia si è ridotta a emoji e Il dolore è diventato qualcosa da esibire.
La folla ovunque, il silenzio da nessuna parte
Ovunque vada, sento la confusione addosso: ristoranti, concerti, viaggi, eventi… tutto è diventato massa, consumo, rumore. È sempre più difficile trovare momenti di vera calma, spazi non affollati, luoghi dove poter respirare davvero. Non amo le lunghe tavolate. Preferisco i pranzi o le cene con poche persone, quattro il numero perfetto, cinque o al massimo sei è proprio il limite, perché solo così si può davvero parlare con tutti, ascoltare, condividere e ridere. Nelle tavolate affollate si finisce per parlare solo con chi si ha accanto, sperando che capiti qualcuno di interessante con cui andare oltre le chiacchiere di circostanza. La convivialità, quella vera, richiede intimità, attenzione reciproca, uno spazio in cui ogni voce abbia il suo tempo. I veri amici non sono quelli con cui si esce sempre, ma quelli con cui si condividono cose autentiche : segreti, risate, fragilità. Sono quelli con cui si assaporano le piccole gioie della vita, i piaceri semplici, un caffè al tavolo guardando il modo intorno, una camminata, una chiacchierata senza fretta. È in questi momenti che si misura la profondità di un legame. Non servono grandi eventi per sentirsi vicini : basta la verità di un momento condiviso. Il mondo di oggi è disumano. Freddo. Ipnotizzato da se stesso. La gentilezza è in via d’estinzione. L’ascolto è raro. La presenza reale è un’eccezione. Gran parte delle persone si muove per abitudine, o semplicemente perché “così fan tutti”. E sullo sfondo, mi inquieta la crescita dell’odio e dell’intolleranza. L’avanzata delle destre in molte parti del mondo non è un caso: è figlia della paura, e si nutre della disumanizzazione. Alimenta muri, semina divisione, promette ordine ma costruisce gabbie. Non è questo il futuro che voglio.
Ripartire da pochi, semplici valori
Non ho soluzioni grandi. Non cerco rivoluzioni. Ma sento la necessità profonda di difendere alcuni valori che ritengo fondamentali: il rispetto, la lentezza, la gentilezza, la presenza. La verità, intesa come contatto umano, come comunicazione diretta, come tempo condiviso senza schermi in mezzo.
Credo ancora che piccoli gesti possano fare la differenza:
– spegnere lo smartphone per qualche ora,
– ascoltare davvero una persona,
– scegliere il dialogo diretto invece del messaggio,
– privilegiare il silenzio invece del rumore.
Voglio impegnarmi a coltivare questi gesti nella mia vita quotidiana. Voglio che diventino abitudini, non eccezioni. Questo sono le abitudini da inseguire. Voglio vivere in modo semplice, umano, essenziale.
La mia filosofia minima o “minimalista”
La mia filosofia personale, alla fine, si regge su poche parole. Un tempo erano due: salute e amore che comprende anche l'amicizia, quella vera. Ora ne aggiungo altre: rispetto, semplicità, leggerezza. Non ho bisogno di altro. “Ritenta, sarai più fortunato”, si diceva un tempo. Forse è davvero così. Prima o poi, la strada tornerà ad essere libera. Senza traffico. Senza notifiche. Senza rumore. Una sera, durante un aperitivo con alcuni ex compagni di scuola, una ragazza mi ha detto una frase che mi ha spiazzato: “uno come te dovrebbe avere accanto una donna speciale.” L’ha detto senza enfasi, ma con una dolcezza che mi ha toccato. Forse quella donna l’ho incontrata, e me la sono lasciata scappare. O forse no. Forse stare da soli, ogni tanto, serve. Per capire cosa conta davvero. Per imparare a bastarsi, ma anche per riconoscere, quando accadrà, la presenza giusta, silenziosa, semplice, umana, in mezzo al rumore del mondo.
Finale
E alla fine, infilo gli auricolari, quelli che zittiscono il mondo, schiaccio play e prende vita la musica della playlist dei miei viaggi. Mi incammino lungo la Martesana, il naviglio vicino casa mia, con l’acqua che scorre leggera. Ogni passo è un battito, ogni nota musicale un ricordo che mi sfiora e intorno il silenzio che si piega alla musica. I ricordi dei viaggi degli ultimi vent’anni mi portano alle prime ore che seguono l’alba o a quelle che precedono il tramonto, alle bellezze di posti prima a me sconosciuti, ritorni e partenze. Cammino e non sono più sulla Martesana, sono altrove, nel mio mondo fatto di suoni e silenzi scelti, dove tutto ha il ritmo del cuore.
Manifesto personale
Voglio una vita più semplice, più vera, più mia. In un mondo che corre, urla, esibisce e pretende, io scelgo di rallentare. Scelgo di ascoltare il silenzio, il mio corpo, i miei pensieri, le mie emozioni. Non mi interessa partecipare alla corsa collettiva verso il nulla. Rifiuto l'apparenza, la connessione continua, l'obbligo di esserci sempre. Non ho bisogno di raccontare ogni momento con un selfie. Non voglio dover dimostrare dove sono, cosa faccio, con chi sto. La mia vita non ha bisogno di spettatori, ma di senso. Scelgo relazioni vere. Preferisco una telefonata sincera a cento messaggi vuoti. Scelgo chi mi ascolta davvero, chi non ha bisogno di chiedermi dove sono per sentirmi vicino. Voglio circondarmi solo di chi sa rispettare il silenzio, lo spazio, la libertà. Riduco il superfluo. Non solo nelle cose, ma nei pensieri, nei doveri inutili, nei rapporti forzati. Voglio liberarmi dal rumore, dal peso delle aspettative, dalla pressione di dover essere altro da me. Coltivo la gentilezza. In un mondo che si indurisce, io voglio restare umano. Un sorriso, un gesto semplice, un'attenzione sincera valgono più di mille parole. La gentilezza è rivoluzionaria. È un modo per restare vivi. Mi impegno ad ascoltarmi. Ad accettare il mio carattere, le mie fragilità, le mie contraddizioni. A non giudicarmi per quello che non sono, ma a riconoscere con onestà quello che voglio diventare. Scelgo l'amore e la salute come orizzonti. Non cerco la perfezione. Cerco equilibrio. Voglio amare ed essere amato, prendermi cura di me stesso, affrontare la vita con più leggerezza. Senza illusioni, ma con presenza. Non voglio tutto. Voglio ciò che conta. Non ho bisogno di riempire le giornate. Ho bisogno di sentirle. Non ho bisogno di essere ovunque. Ho bisogno di esserci, di stare dove sto davvero bene, e soprattutto voglio allontanarmi il più possibile dai problemi di salute, vivendo un lungo periodo di serenità.
L’illusione della conoscenza altrui
Spesso ci chiediamo perché la gente che vive in coppia pensi di sapere come si stia da soli. È come se la loro esperienza fosse l’unica vera e valida, e la nostra, da single, fosse un passo falso o una condizione di mancanza. Ci capita spesso di sentire frasi del tipo : “Ma come fate a stare da soli?”, oppure : “Ah, io non viaggerei mai da solo …”, “Non mangerei mai senza compagnia …”, “Non farei mai passeggiate in solitario …”, o ancora : “Tu non hai figli, non puoi capire”, quest’ultima anche detta da coppie a coppie. Loro non sanno che stare da soli regala tempo prezioso, tempo per pensieri su mille argomenti diversi, per riflettere e guardare dentro noi stessi. Non sanno che questa solitudine non è vuoto, ma una porta aperta : ci apre la mente, ci fa scoprire nuovi mondi interiori, significa indipendenza. E poi, quanto è bello mettersi gli auricolari, ascoltare musica mentre camminiamo e lasciar andare la fantasia, viaggiare con la mente lontano. Eppure, queste esperienze sembrano così incomprensibili a chi non le vive. La verità è che molti di noi sono stati in una coppia, io compreso, per periodi lunghi e significativi della propria vita. Abbiamo vissuto altre storie, sia prima di quelle relazioni sia dopo. Abbiamo amato, perso, imparato. Abbiamo avuto esperienze diverse che ci hanno donato una mente più aperta e una visione più ampia della vita e delle sue sfumature. Eppure, nonostante questo, ci ritroviamo spesso a dover difendere, interiormente, la scelta di vivere periodi da soli, di godere della nostra indipendenza. Non riusciamo a capire come possano pensare che la loro realtà sia migliore della nostra, come se mancasse qualcosa nelle nostre vite solo perché, in certi momenti, scegliamo di stare senza una relazione fissa o una famiglia tradizionale. Questo ci irrita, perché sappiamo che loro non sanno : fanno solo supposizioni. Parlano di qualcosa che non conoscono, eppure si sentono in diritto di dire come dovremmo vivere o cosa sia giusto per noi.
La presunzione del giudizio
Questo atteggiamento non riguarda solo la nostra condizione, ma mille altre situazioni: “Io farei così …”, “Tu sbagli …”, “Io so bene come va la vita.” Ma davvero pensano che le loro regole valgano per tutti ? Come se ci fosse un unico modo di vivere. In realtà, questa sicurezza nasce spesso da una paura nascosta, dal bisogno di controllare l’ignoto. Se non conoscono davvero la nostra vita, cercano di dominarla con le parole, come chi vuole convincere gli altri con la propria verità. Come se la nostra vita fosse un argomento di pubblico dibattito, come se avessero il diritto di giudicare scelte intime e personali. A me è capitato. Quando lasciai una ragazza per un'altra e successivamente questa altra ragazza lasciò me. Qualcuno mi disse : "Non abbiamo compreso la tua decisione di lasciare la prima ragazza e, onestamente, non avevamo condiviso la tua scelta.” Confesso che, di fronte a queste parole, non potei fare a meno di sentirmi imbarazzato e pensare: ‘Ma come vi permettete ?“. Cosa potreste sapere voi della mia vita, delle mie scelte e dei miei sentimenti?” Chi siete voi per giudicare ? Io non giudico mai gli altri. E’ la loro vita. Ho capito che non si può cambiare il modo in cui vedono le cose e che cercare di spiegarci o difenderci spesso ci porterebbe solo a scendere sul loro piano, facendoci perdere energie e serenità. Così abbiamo imparato a riconoscere l’irritazione quando arriva, a non farci trascinare dai giudizi, a mettere confini gentili ma fermi.
Il valore della propria esperienza
Ricordiamo a noi stessi che la nostra esperienza è valida, unica, e non deve essere approvata da nessuno per esistere. La nostra vita, le nostre scelte, il nostro percorso sono nostri. Nessuno può entrare nelle nostre menti o giudicare il nostro cammino se non noi stessi. Ognuno ha il diritto di camminare sul proprio sentiero, con le proprie regole e le proprie scelte.
La coscienza personale in un mondo sopravvalutato
Tutto appare sopravvalutato.
Tutto appare più grande del necessario.
Stamattina mi sono svegliato con un pensiero ostinato : tutto, in questo mondo, è sopravvalutato. Persone, cose, persino idee… tutto appare più grande del necessario, più importante di quanto davvero sia. Non vediamo ciò che è, ma ciò che desideriamo che sia. Così finiamo per innamorarci delle nostre illusioni più che della realtà.
Chi stabilisce i valori? Le mode, il potere, le tradizioni. Ma la coscienza non tace, non si lascia ingannare. Puoi leggere mille leggi, ascoltare mille voci, seguire mille esempi; la coscienza stabilisce cosa è giusto e cosa non lo è. È l’unico giudice che non puoi corrompere.
Anche il gusto, che crediamo naturale, è in gran parte appreso. Ciò che chiamiamo “raffinato” è spesso ciò che ci hanno insegnato ad ammirare. E la novità ? Brilla un istante, ci cattura, ci illude, poi cade, uguale a tutte le altre.
Eppure ogni mattina inizia un piccolo miracolo : la luce lenta del sole che entra dalla finestra, il latte caldo con il caffè nella tazza e il profumo di un fresco croissant. La mia felicità del giorno è qui, tra queste piccole cose : un film commedia francese, un pasto in una taverna greca davanti al mare, una sosta in un bistrot parigino lontano dalla folla, una conversazione sincera.
Vorrei che il mondo intero facesse un passo indietro. Vorrei più leggerezza. Vorrei sognare che queste piccole cose siano quelle che davvero muovono la nostra vita. Vorrei quasi che il mondo tornasse al passato, al bianco e nero, dove tutto correva più lento e si respirava di più. Basta fretta : di fare, di sapere, di dimostrare.
E in questo spazio sospeso, senza clamore, scopro che la libertà non è correre, possedere o apparire : è ascoltare, respirare, sentire, e lasciare che le piccole cose muovano la vita. La coscienza, invece, resta. Non cambia con le stagioni né con le mode. È la sola voce che ci appartiene davvero. Forse la libertà comincia qui : nello smettere di inseguire ciò che il mondo esalta, e nell’imparare, finalmente, ad ascoltarla.
Tutto il resto?
Tutto appare sopravvalutato.
Tutto appare più grande del necessario.
La molteplicità delle risposte
Ma allora ci chiediamo: chi stabilisce la regola dello star bene? Chi decide qual è la ragione delle cose? Forse la vita non ha una sola risposta giusta, ma mille sfumature diverse. E la vera libertà è accettare questa molteplicità senza cercare di imporre una verità unica. Questa è la più grande conquista che possiamo fare : vivere la nostra vita con sincerità, senza lasciare che gli altri definiscano chi siamo o come dobbiamo essere.
Credo che con questo racconto di riflessioni ho già scritto il riassunto che faccio puntualmente a fine anno. Sentivo il bisogno di anticiparlo e rileggendolo prima di pubblicarlo, mi sono accorto di aver scritto, senza volerlo, una sorta di “relazione programmatica”, un po’ come quella che fa Tom Cruise in Jerry Maguire, con tutte le conseguenze del caso.
A chi potrà criticare le mie osservazioni sui social citando il mio blog, rispondo anticipatamente senza giri di parole: è un diario personale, rigorosamente chiuso. Non è un’arena né una passerella per ipocriti. Chi non lo capirà sarà semplicemente fuori posto. Sinceramente, il giudizio degli altri non mi interessa più : vivo il mio mondo.”
Canzone del post
Ho scelto "Lifeline" degli Spandau Ballet non solo per il suo titolo che risuona con il tema di questo racconto, ma anche per un motivo molto personale. È del 1983 (*), un anno che ha segnato un cambiamento decisivo nella mia vita, un tempo in cui ho iniziato a tracciare il mio cammino e a incontrare persone che hanno lasciato un segno profondo. Quel momento è diventato per me un filo sottile che unisce passato e presente, emozioni e consapevolezza.
(*) Era l’anno in cui ho preso la patente, comprato la prima macchina e vissuto il mio primo vero grande amore.
"Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.”
Post's song : "Lifeline" performed by Spandau Ballet
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